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mercoledì 22 settembre 2010

Il rapporto tra l'etica e il diritto

Forse è solo finita l’epoca delle vacche grasse, o forse ci siamo abituati troppo presto e troppo facilmente a pensare che il diritto alla salute e il rispetto delle regole fossero dei diritti ormai acquisiti anche sul posto di lavoro, così come il ricevere il giusto corrispettivo per il lavoro prestato.

A quanto pare ci siamo sbagliati.



Secondo alcuni la colpa è del mercato globale, che ora fornisce facilmente manodopera a basso costo, mettendo in moto così quella spietata concorrenza nella domanda di lavoro che ha finito col mettere in discussione tutte le regole di salvaguardia dei lavoratori (tanto pubblici quanto privati) acquisite nella nostra società civile dopo tanto tempo e tanta dolorosa fatica.

Il comportamento degli Stati emergenti, la cui produzione si basa spesso sullo sfruttamento dei lavoratori, con turni massacranti, paghe basse e quasi nessuna tutela né per la salute di chi lavora né per gli standard qualitativi del prodotto finito, non è però affatto stigmatizzata, se non a parole, dagli Stati cosiddetti avanzati.

Gli imprenditori guardano, anzi, avidamente a questi paradisi che permettono (e promettono) alte produzioni a bassi costi, con conseguenti lauti guadagni (ma a quanto ammonta il giusto compenso per un imprenditore?).

Probabilmente è normale che l’investimento insegua il reddito più alto, è normale che l’imprenditore insegua il guadagno più proficuo, e magari è anche normale che il perseguimento del profitto personale si accompagni ad una certa tendenza ad essere insofferenti verso le regole che, se da un lato tutelano chi lavora, dall’altro provocano costi aggiuntivi per chi investe nell’impresa. Normale, però, non significa necessariamente che sia anche giusto.

Quello che non è normale, e nemmeno giusto, è che gli Stati della Comunità Europea assecondino queste tendenze, perché é appunto per combattere le tendenze oscure dell’animo umano che la società civile si dà delle regole, che un popolo si costituisce in una nazione, riconoscendo allo Stato una sovranità ed un potere d’imperio, in cambio della tutela degli individui e dei settori più deboli della popolazione.

Abdicare a questo compito fondamentale sarebbe, per uno Stato, come rinunciare a perseguire il crimine, confidando in un meccanismo automatico di equilibrio insito nella stessa società.

A quanto pare, però, nella Comunità Europea gli Stati hanno scelto di affidare il progresso comunitario al liberismo ad oltranza, hanno scelto di lasciare all’egoismo personale, eretto a sistema economico finanziario, il compito e la responsabilità di decidere il destino dell’intero continente.

Si assiste così ad una strisciante, ma sempre più pressante, tendenza ad indulgere alle pretese di questo egoismo liberista, tendenza che si traduce in un progressivo smantellamento di tutto il sistema di garanzia dei diritti di chi lavora, in nome di una competitività che si fatica a comprendere e ad accettare.

Se però il nostro sistema economico finanziario si basa sul ricatto di potenze economiche tanto forti da riuscire a tener testa anche ad una nazione, o addirittura ad una Comunità di Nazioni, forse è giunto il momento di mettere in discussione i principi stessi sui quali si basa la nostra economia.

Se il meccanismo può continuare a funzionare soltanto a patto di scaricare tutti i costi ed i disagi su chi lavora, in nome di un benessere economico che ha il solo scopo di riempire le nostre case di oggetti inutili e magari pericolosi, costruiti con standard qualitativi sempre peggiori, ad un costo che, per quanto basso, potremo permetterci di pagare sempre meno facilmente, allora forse va cambiato il meccanismo, anziché cercare di prolungare l’agonia di quella che è solo una parodia del nostro finora abituale tenore di vita.

Forse è giunto il momento di riconoscere all’etica un valore significativo anche in settori in cui il termine “laico” è stato usato spesso a sproposito, per coprire e dare giustificazione all’egoismo più spietato, per rendere irresponsabili i responsabili e ridicolizzare chi, in nome del buon senso e della buona volontà, ha chiesto e chiede soltanto giustizia, sia che lavori nel pubblico o nel privato.

Etica significa anche non abituarsi al malcostume e non “fare il callo” agli scandali; significa pretendere che chi sbaglia paghi, anche se a sbagliare siamo stati noi; significa anche piantarla di essere buonisti, anziché cercare di essere giusti; significa, infine, esercitare tutti insieme quella sana e forte pressione fatta di buon senso, nei confronti di chi detiene il potere politico, perché prenda le decisioni più giuste per il bene di tutti.

A questo nessuno di noi può e deve rinunciare.

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