La Pubblica Amministrazione vista dal Pubblico Impiego

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martedì 28 settembre 2010

S.P.Q.R.:Sono Porci Questi Romani oppure Sono Pazienti (fin troppo!) Questi Romani?

Era solo una battuta, dicono.
Peccato che si trattasse di una battuta di pessimo gusto, per non dire offensiva, fatta pubblicamente da un ministro (il minuscolo non è un refuso) della Repubblica, cioè da un individuo il cui ruolo istituzionale dovrebbe indirizzare e condizionare tutte le scelte non solo della propria vita pubblica ma anche di buona parte di quella privata.
A patto, naturalmente, di avere qualche vaga nozione del significato dei termini “dignità”, “rispetto”, “pubblico servizio” e simili.



E’ mortificante, invece, essere costretti a prendere atto di come non soltanto le semplici norme della buona educazione, ma anche nozioni storiche e giuridiche che dovrebbero essere invece fondamentali per coloro che sono chiamati a gestire la cosa pubblica, possano essere completamente ignorate perfino da un ministro.
Esaminiamone qualcuna.

Innanzi tutto, al giorno d’oggi prendersela con i Romani, a parte ogni altra considerazione di carattere etico, equivale comunque ad aggredire una specie in via di estinzione. La maggior parte degli abitanti della città di Roma, infatti, ben lungi dal poter vantare una ascendenza romana da almeno sette generazioni, discende invece dagli quegli stessi emigrati calabresi, siciliani, pugliesi, lucani, abruzzesi, campani, marchigiani, e via discorrendo, che popolano oggi allo stesso modo città del nord come Torino e Milano. Se per assurdo scoppiasse una guerra tra Roma e la Padania, sarebbero molte le famiglie ad avere i propri membri su fronti opposti.

Sicuramente non è facile gestire una metropoli, qualunque essa sia, ma se le città del nord avessero un numero di abitanti ed una superficie pari a quelli di Roma, se avessero anch’esse gli stessi problemi logistici e istituzionali che affliggono Roma, non sarebbero certo più semplici da gestire della capitale. E’ facile giudicare, quando il problema è in casa d’altri.

Forse, però, l’insulto era diretto non verso la città, ma verso la burocrazia romana. Se così fosse, non si può fare a meno di osservare che spesso la tipologia di soggetti che se la prende con la burocrazia, e con la burocrazia di Roma in particolare, è la stessa tipologia di soggetti alla perenne ricerca di entrature e conoscenze per poter agire, meglio se con sistemi non propriamente ortodossi, in spregio di norme e regole create per garantire gli individui più deboli della società. Il rispetto delle regole viene così additato al pubblico ludibrio come ostacolo al progresso economico, l’insofferenza verso qualsiasi norma porta a giustificare anche la corruzione, che viene eretta a consueto sistema di gestione dell’impresa. Se però la gestione del sistema politico avvenisse con certi sistemi che abbiamo visto al nord, ad esempio con la vicenda Parmalat, difficilmente potremmo aspettarci qualcosa di meglio rispetto a certi sistemi “romani”.

In definitiva, però, secondo un vecchio detto, “chi disprezza compra”, vale a dire che spesso in pubblico si denigra ciò che invece in privato si brama, come faceva la famosa volpe della favola con l’uva, giudicandola acerba soltanto perché irraggiungibile. Che l’ipotesi non sia del tutto pellegrina lo dimostra l’attenzione recentemente dimostrata da certi medesimi soggetti politici su taluni ministeri, di cui viene auspicato il trasferimento al nord, in barba a qualsiasi considerazione sulle problematiche di ordine logistico, economico, umano e soprattutto sulla utilità pratica dell’operazione. Si giustificano certe pretese asserendo che i ministeri dovrebbero stare dove si trovano i soldi, dove si crea la ricchezza. Poiché il Ministero dell’economia gestisce i soldi delle entrate dello Stato, cioè i soldi che entrano con le tasse, verrebbe da chiedersi però, alla Di Pietro: “che c’azzecca” un Ministero dell’economia al nord, visto che proprio lì c’è la percentuale più alta di evasione fiscale? Si vorrebbero forse avvicinare i controllori agli evasori per rendere a questi ultimi la vita più difficile? O forse si vorrebbe solo poter condizionare più facilmente le scelte economiche del Paese secondo il tornaconto economico dell’imprenditoria locale?

Forse però il denaro non è tutto; dopo il denaro, forse, si cerca anche un certo prestigio, il prestigio di un Ministero magari, allo stesso modo in cui, già dal diciottesimo secolo, l’allora emergente ceto borghese cercava il prestigio di un titolo nobiliare, magari decaduto, anche a costo di comprarne uno con una spregiudicata politica matrimoniale. Niente però di cui andar fieri o da additare ai posteri quale esempio di virtù.

In realtà, per risolvere i problemi del Paese è necessario innanzi tutto liberarsi tanto dei pregiudizi quanto delle battute da avanspettacolo.
E’ triste, invece, dover constatare che dopo centoquarant’anni, mentre festeggiamo il raggiungimento sofferto dell’unità nazionale, ci ritroviamo ancora a chiederci se, dopo “aver fatto l’Italia”, “sono stati fatti” finalmente anche gli Italiani.

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